(Andreina La Cava - III B Scuola media “Giuseppe
Garibaldi”)
Giovannino vorrei che ti
persuadessi che gli spregi non li hai avuti te ma li ho ricevuti io. Quante
lettere hai ricevuto da me con degli insulti e dei rimproveri? Se ultimamente
ti feci scrivere quella lettera dietro la tua, chiunque lo avrebbe fatto. Se ti
sei fatto delle immaginazioni e se hai avuto persone che ti hanno imbrogliato
la testa, io non ne ho colpa. Potevi far di meno a prendertela tanto con me
senza nessuna ragione; in fin dei conti io sono sempre stata quella e non ho
mai creduto di offenderti neanche nella mia ultima lettera. Se ti dissi che del
piede non ho mai avuto il più piccolo dubbio e nemmeno mai pensato, doveva
bastare questo per farti capire che non era un motivo di averti potuto
rifiutare. La mia parola te la diedi con l’intenzione buona e ti giuro innanzi
a Dio che se la prima volta non condiscesi non fu né per il piede e né perché
mi eri antipatico. Ti prendevo col solo fine di amarti e di farti felice e
avrei mantenuto la promessa. Non sono poi tanto cattiva come mi credi. Tutte le
persone che mi hanno conosciuto e che mi hanno trattato più di te mi hanno
sempre amato e stimata, non mi hanno mai ritenuto capace di mentire e di fare
del male a nessuno. Te mi giudichi a torto ma siccome hai voluto dar retta più
agli altri che a me, così ti sei procurato il male da te solo. Del resto sei
padronissimo di dare retta a chi vuoi, però dovevi pensarci prima, se avevi
persone che avessero tanto potere su di te, di farti credere ciò che non è
vero. Se fin da principio non hai avuto stima di me non dovevi farti avanti;
dovevi lasciare stare le persone che non ti sono venute a cercare; in ultimo
non hanno bisogno di te, come mi fai sapere che fosse solamente questo il fine
ch’io ti sposavo.
Tua cugina
Con questa lettera Imelde Morri interrompe la sua storia d’amore con
Zvanì, ossia con il poeta e scrittore italiano Giovanni Pascoli. Non conosciamo
ancora le ragioni profonde per le quali la ragazza avesse accettato la corte
del poeta, mentre ci sono ben note quelle di Zvanì che era ancora sconvolto per
il matrimonio della sorella Ida e un po' in polemica con l’altra sorella Mariù,
alla quale sembrava di stare sacrificando la propria vita e la propria libertà.
Giovanni Pascoli, il
poeta che tutti conosciamo, soprannominato dalle sorelle Ida e Marilù (o Mariù),
Zvanì, è uno dei più amati. Fu allievo del grande Giosué Carducci
nell’Università di Bologna, che frequentò grazie ad una borsa di studio. Dopo
la laurea lavorò dapprima a Massa e dopo a Matera dove lo raggiunsero le due
sorelle. Sappiamo poco dai libri sui suoi amori, sulla sua vita privata. Ma
appare una data importante, il 1896 , quando Giovanni Pascoli pensa di prender
moglie: è maturo anagraficamente (ha da poco compiuto 40 anni) ma
psicologicamente fragile, non per colpa dell’esser poeta ma piuttosto “dell’assedio”
psicologico a cui è sottoposto da parte della terribile sorella Mariù.
Pascoli scrive al
segretario comunale di San Mauro, Pietro Guidi: «Caro Pirozz, ti rinfresco la
memoria. Cava in gran segreto le mie fedi e rintraccia quelle di mio padre e di
mia madre e manda il tutto a Girolamo Perilli, via Garibaldi, 33, Rimini. In
gran segreto… segreto di stato!…».
Momo Perilli è il cognato
della trentenne Imelde Morri, la donna di cui Giovannino si è innamorato definita
con due aggettivi: pallida e tacita. Imelde è sua cugina, figlia di Alessandro
Morri e di Luigia Vincenzi sorella della madre del poeta, Caterina.
Da poco la sorella di
Giovanni, Ida, si è sposata con Salvatore Berti di Santa Giustina, lasciando
Mariù più depressa che mai. Riferendosi a quei giorni, Mariù descrive
Giovannino in preda ad una «tremenda crisi di nervi e di cuore». Ecco che
decide di andare a trovare, ai primi di maggio del 1896, a Sogliano, la zia
Rita dalla quale apprende che Zvanì si è ufficialmente fidanzato con Imelde
Morri (che aveva pochi mesi di età in meno di lei).
Maria Santini nel suo
recente «Candida Soror» scrive che Imelde era «una bella donna, alta, bruna,
ben fatta». Ed aggiunge: «in questo modo sgradevole» Mariù ebbe notizia
dell’evento. Ma la stessa Santini riporta un antefatto: Mariù aveva scritto per
conto di Zvanì ad Imelde dopo la morte della di lei madre, per sapere se la
defunta zia avesse mai ritenuto possibile un loro matrimonio. Nel caso di
risposta positiva, Zvanì l’avrebbe sposata volentieri.
Mariù dunque conosceva il
retroscena. La notizia appresa a Sogliano può essere considerata la conferma
della difficoltà che Zvanì incontrava nel trattare con Mariù di certi
argomenti. Non deve meravigliare che Giovannino abbia agito di nascosto per il
fidanzamento, era tanta la paura della reazione della sorella.
Tornata da Sogliano,
Mariù non si dà pace. Trama contro le nozze di Zvanì e vorrebbe anche frugare
nel portafoglio del fratello, alla disperata ricerca di qualche lettera
d'amore.
Giovannino è messo sotto
interrogatorio da Mariù, confessa la “colpa” del suo amore per Imelde, ma le
promette di sposarsi soltanto dopo averle trovato uno straccio di marito per
lei.
Mariù intanto aveva
appreso a Sogliano che una delle due sorelle Morri aveva dichiarato che non
avrebbe mai sposato un uomo con il difetto fisico di cui lo stesso poeta si lamentava
compiangendosi: il mignolo «guasto» d’un piede.
Maria riporta la notizia
a Giovannino, con cattiveria. Ed arriva così dove voleva giungere, Zvanì
rinuncia (maggio 1896) alle nozze con Imelde, la quale fa sapere che a parlare
del dito «guasto» non era stata lei ma sua sorella Annetta.
Dell’epistolario che i
due innamorati si scambiarono non restano che poche ma importanti righe,
pubblicate sul «Corriere della Sera» del 21 dicembre 2005: «Non sono poi tanto
cattiva come credi. Ma hai voluto dar retta più agli altri che a me e ti sei
procurato il male da solo». La data è il 20 giugno 1896.
Ha scritto Stefano Bucci
sul quotidiano milanese che la lettera è riaffiorata dalle pagine degli «Ab
urbe condita libri» di Tito Livio in una vecchia edizione conservata nella
biblioteca della casa di Castelvecchio e da poco scoperta dall'attuale
Conservatore di Casa Pascoli, Gian Luigi Ruggio.
Maria Santini nella biografia di Mariù difende la
sorella di Zvanì. Se è apparsa cattiva, la colpa è di un «pregiudizio maschilista».
Le poche righe di Imelde raccontano di riflesso il dramma del poeta di San
Mauro: «hai voluto dar retta più agli altri che a me», scrive la cugina non
sedotta ma abbandonata. Il che è storicamente la verità di un duplice dramma
psicologico che emerge dalle stesse pagine di Maria Santini: «Se Imelde fosse
diventata la signora Pascoli, Maria avrebbe perso tutto». Poteva Zvanì tradire
la sorella portando in casa una moglie? Non di certo. Il nido, quel nido
miticamente invocato dal poeta delle piccole cose, antitesi di D’Annunzio,
altro esponente del Decadentismo, era una specie di carcere. Vero e non
simbolico. Ma quali furono realmente i motivi dell’accanimento di Marilù contro
la cugina Imelde tali da voler distruggere il rapporto tra loro? Non sono ancora chiari. Si ipotizza che
potrebbero essere legati ad un vincolo familiare che avrebbe visto negati a
Mariù i beni economici legati all’eredità. La paura del “nido vuoto”, la
mancanza di una figura maschile di riferimento all’interno del nucleo familiare
rendono Mariù acerrima nemica del fratello. La paura di essere abbandonata e
l’incubo di rivivere una perdita la tormentano. Quel fratello da lei tanto
amato, che non aveva esitato a cercare moglie senza prima averle comunicato le
sue intenzioni, aveva sconvolto il suo equilibrio. Si è disperatamente
aggrappata a qualsiasi cosa pur di strappare il suo Zvanì alla cugina Imelde.
Possiamo definirla un Don Rodrigo della situazione, ma sicuramente non si
scoprirà mai il vero motivo della sua “rivolta”.