(Francesco
Gitto, IC Liceo Scientifico)
Il 9 maggio 1978 è stata certamente una delle giornate più buie della Storia della Repubblica Italiana. Roma e Cinisi sono accomunate dalla morte di due loro figli: l’onorevole Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana, sequestrato per 55 giorni, e il giornalista Giuseppe Impastato, impegnato nella lotta alla mafia tramite la sua Radio Aut. “Cosa Nostra” e le Brigate Rosse diventano protagoniste di quel martedì che avrebbe lasciato una macchia indelebile sul nostro paese, soprattutto per l’indifferenza che continua ad accompagnare i due delitti. Quello dell’onorevole Moro è forse il caso che ha destato più stupore quel giorno, sia perché egli era presidente della DC, sia perché il suo sequestro era stato seguito ansiosamente da tutti i cittadini italiani dal 16 marzo. Dopo il tragico epilogo della vicenda, però, una domanda sorse spontanea ai molti allievi di Moro (che insegnava nella Facoltà di Scienze Politiche all’Università romana della Sapienza) e ad altri, anche tra le forze dell’ordine: "Davvero è stato fatto tutto il necessario per la liberazione dell’ex presidente del consiglio?" Nelle lettere di Moro dalla prigionia, specialmente nelle ultime, traspare la tristezza e la delusione per la scarsa collaborazione a trattare da parte della Democrazia Cristiana, del Partito Comunista Italiano e addirittura del papa Paolo VI. Le personalità di spicco della DC rifiutarono moltissime offerte di trattativa anche da parte delle stesse Brigate Rosse: tra questi vi era anche Giulio Andreotti, che proprio la mattina del sequestro doveva ricevere la fiducia dal parlamento per il nuovo governo da lui formato. Secondo molti, Moro era un uomo quasi “scomodo” all’interno della politica italiana, poiché stava arrivando ad un significativo compromesso col PCI di Berlinguer. Forse le Brigate Rosse hanno tolto un “peso” dalla DC quale l’onorevole Aldo Moro? Naturalmente queste sono ipotesi molto azzardate, anche se in qualche modo spiegherebbero la grande indifferenza alla trattativa dei due massimi partiti di quel periodo, il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana, che all’epoca erano le due forze protagoniste del compromesso storico promosso proprio dal Presidente della DC. Una cosa è certa: il delitto Moro rimane sulla coscienza di tutti i politici dell’epoca, che avrebbero potuto benissimo salvarlo, ma non hanno dato il massimo.
Una storia
ben diversa riguarda Giuseppe Impastato: Peppino, come spesso veniva chiamato,
era un ragazzo di Cinisi, in provincia di Palermo. Suo padre apparteneva ai
piani alti della mafia Siciliana. Peppino però aveva una personalità
differente: attivissimo come giornalista antimafia, parlava attraverso Radio
Aut, fondata a Terrasini con un gruppo di amici. “Ma che sarà mai?”. “Non farà
tanta strada”. E invece Radio Aut non spopolò solo a Cinisi, ma in tutta la
provincia di Palermo, dove raccontava ironicamente lo strapotere mafioso in un
paesino di 7.000 anime. Peppino aveva rotto il silenzio, la gabbia opprimente
dell’omertà, raccontando Cosa Nostra così com’era. Si candidò con Democrazia
Proletaria alle elezioni amministrative di Cinisi del 14 maggio 1978. Non
arriverà, però, all’ultimo comizio. Peppino era un pazzo suicida che, secondo
le dichiarazioni dei Carabinieri, si é fatto esplodere sulla linea ferroviaria
Palermo – Trapani, nell’intento di organizzare un attentato. Peppino era un
terrorista. La verità emerse solo nel 1986, quando Tano Badalamenti venne
accusato come mandante del suo omicidio. Eppure, la notizia della sua morte
rimaneva totalmente offuscata dal ritrovamento di Moro in via Caetani. L’opera
che lui aveva iniziato venne portata avanti: nel 1979, duemila
suoi concittadini partecipano alla prima manifestazione antimafia della Storia
d’Italia.
Il 9 maggio 1978 ha segnato sicuramente
in modo tragico la storia del nostro Paese, ma allo stesso tempo ci ha lasciato
la consapevolezza che lo spettro dell’indifferenza che aleggiava su questi
eventi sia stato scacciato. Spetta a noi non farlo più tornare.