(Francesco Gitto, IIIC Sc)
Ormai da settimane l’epidemia di coronavirus
attanaglia l’Italia, bloccando di fatto un intero Paese. I contagiati crescono
ogni giorno, parliamo di cifre nell’ordine delle migliaia, e gli elenchi dei necrologi dei
giornali, soprattutto quelli del settentrione, sono sempre più lunghi. E’ la
crisi più grave che colpisce il nostro Paese dal dopoguerra: lo afferma anche
il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che a suon di DPCM sta gestendo
l’emergenza – neanche troppo male, a mio avviso - ormai da un mese. La situazione
è difficilissima, forse anche più di quanto si pronosticava a metà febbraio.
Già, perché, mentre la Cina viveva quello che stiamo vivendo noi oggi, eravamo
tranquilli, lontani dalla provincia dell’Hubei, dal mercato di Wuhan. Eppure,
neanche questo la globalizzazione ha perdonato, e in poco tempo qualche caso
era stato trovato in giro per l’Europa, ma l’Italia era serena perché già i
voli diretti dalla Cina erano stati soppressi. Poi i due turisti positivi a
Roma, quindi il paziente 1 a Codogno, ma ancora non c’è da preoccuparsi, in
ogni caso è una banale influenza.
E i casi nel frattempo crescono, diventano
cento, duecento, mille. Scuole e atenei chiusi nel nord Italia, ma solo per
poco: arriva l’ordinanza di riapertura nel Veneto, l’emergenza non fa paura.
Invece forse è troppo tardi, il governo Conte-bis fa subito marcia indietro, e
il 4 marzo tutte le scuole e gli atenei italiani sono chiusi fino al 3 aprile,
ma probabilmente verrà prorogato il rientro a scuola. Poi i casi crescono
sempre di più, e l’Italia diventa zona rossa. Tutta. Oggi il bilancio supera gli 80.000 contagi, e il virus fa davvero paura. Non dobbiamo però scoraggiarci,
non ci dobbiamo arrendere. Non ci dobbiamo però neanche limitare a mettere la musica
dal balcone alle 18 di ogni giorno, o a appendere le bandiere italiane alle
finestre delle nostre case. Per carità, bei gesti, ma bisogna focalizzare l'attenzione sulla gestione dell'emergenza.
Non ci possiamo tuttavia permettere di
rimanere inermi a tutto ciò. Va fatta un’analisi razionale di tutti quelli che
sono stati gli errori che nel tempo hanno portato alla condizione di
impreparazione del sistema sanitario e dell’economia italiane.
Va fatta una considerazione a proposito proprio del sistema
sanitario, che poi inevitabilmente si collega con il sistema economico
italiano in genere: siamo proprio sicuri, adesso, che ci debba essere
l’alternativa privata? I fatti ci dicono che è sconveniente, non solo per le
tasche degli italiani, ma anche per la loro salvaguardia. La sanità privata,
difatti, al principio è risultata assente all’appello, quando già il SSN (Servizio Sanitario
Nazionale) aveva bisogno di aiuto, perché l’emergenza iniziava a gravare tanto
sulle spalle della sanità pubblica. I privati si sono iniziati a muovere solo
agli inizi di marzo, ma in maniera molto spesso insufficiente, in aiuto degli
ospedali statali. Ovviamente, la sanità pubblica non ha mostrato da subito difficoltà per caso: da più di dieci anni si tagliano i fondi statali alla sanità; lo stesso governatore della Lombardia Fontana, in tempi più recenti, ha spinto molto sulle cliniche private, dato che il servizio nazionale era sottofinanziato, quindi
mediocre, mentre si avvalorava la tesi per cui privato=qualità.
Occorrerebbe fare un discorso più ampio che coinvolge tutto il
sistema economico italiano. Da settimane Confindustria si oppone
fermamente alla chiusura degli stabilimenti responsabili della produzione e
della distribuzione di prodotti non di prima necessità, dando vita a un tira e
molla con i sindacati che hanno minacciato lo sciopero generale.
Per non parlare della condizione degli operai in molte fabbriche, costretti a
lavorare senza strumenti di protezione adeguati, senza le giuste misure e con
la costante paura di tornare a casa infetti, e quindi di contagiare i propri
cari. Questo perché “L’Italia non si può fermare”, “I nostri partner aspettano
la merce”. Ancora una volta, il sistema privato mette a rischio la salute e la
stabilità dei propri lavoratori. Sulla scia di questa tendenza, anche il
sindaco di Milano Sala ha lanciato, qualche settimana fa, l’hashtag
#milanononsiferma. All’appello si unisce il 27 febbraio anche il segretario del
Partito Democratico Nicola Zingaretti che, dopo un aperitivo aperto a tutti proprio
nel capoluogo lombardo, ironia della sorte, è risultato positivo al Covid-19.
Insomma, non si può non dire che, per certi versi, l’emergenza sia stata presa
sottogamba, o peggio, sia stata nascosta a favore di interessi personali: si veda il video pubblicato giorni fa da
Confindustria Bergamo, che descrive la situazione della città lombarda sotto
controllo, e che i partner commerciali delle aziende del luogo non devono preoccuparsi.
Proprio a Bergamo sono state scattate le paurose foto delle colonne di mezzi
militari carichi di salme.
Se da un lato, dunque, è vero che dobbiamo stare tutti più
uniti, che ci dobbiamo fare forza, che dobbiamo avere speranza, che oggi più
che mai dobbiamo sentirci ed essere popolo, d’altro canto non ci dobbiamo
perdere in questa retorica, che per quanto sia bella e necessaria, deve anzi
dare lo spunto per un rilancio dell’Italia. Rilancio che dovrà raccogliere le
macerie del Paese in cui abbiamo vissuto fino ad oggi, salvare ciò che si può
salvare, dopodiché andrà tutto ricostruito da zero, ci dovremo totalmente
reinventare. E ciò accadrà per di più mentre gli altri paesi saranno nella
nostra condizione, quindi potremmo iniziare il percorso da soli. Va sicuramente
rivisto il sistema pubblico-privato italiano: è tempo, forse, che lo Stato
torni al centro della vita sociale ed economica italiana: questo
significa che non ci dovranno più essere sottofinanziamenti al Servizio
Sanitario Pubblico, perché il diritto alla tutela della salute deve essere garantito per tutti; all’Istruzione Pubblica, affinché tutti gli studenti possano fruire di tale diritto applicando quanto è scritto nella nostra Costituzione; significa che non vi dovranno più essere situazioni nelle quali i privati
avranno più peso del pubblico in attività che riguardano beni e servizi essenziali per il cittadino; insomma, un ritorno sui nostri passi che
potrebbe davvero far dimenticare la distruzione della tutela dei diritti delle fasce più deboli della popolazione, a partire dalla tutela del diritto alla salute per tutti.