L'Ultima foto

 


di Giulia Giamboi (2B Liceo Scientifico)
(Primo posto, sez. prosa nel concorso letterario "Meditate che questo è stato", indetto dal ROTARY INTERNATIONAL 2110° DISTRETTO SICILIA E MALTA)

“Click”, un suono soave, delicato, tenero che proviene da una macchina così tanto astuta e
intelligente, la cosiddetta “macchina fotografica”, grazie alla quale anche un istante può diventare
immortale. Mi è sempre piaciuto fare fotografie, l’idea di catturare qualcosa di così fugace su un
semplice pezzo di carta mi ha da sempre affascinato. Una delle prime cose che vidi da bambino,
credo sia stata proprio una macchina fotografica, lo devo anche a mio padre che n’era
praticamente ossessionato. Vivevo con la mia famiglia in una piccola cittadina non molto distante
da Berlino, mia madre era un’umile casalinga mentre mio padre possedeva uno studio di
fotografia. Non ricordo quante ore passavo lì, aiutandolo con i negativi. A lui piaceva immortalare
i paesaggi, ricordo che viaggiavamo sempre, li trovava così affascinanti e suggestivi. Onestamente
io li trovavo noiosi, mi piaceva piuttosto fotografare le persone, catturare la loro anima in una
singola foto. Ed era evidente che un giorno sarei diventato un fotografo, e magari persino famoso.
A volte mi ritrovavo ad immaginare che un giorno avrei viaggiato per il mondo e scattato foto a
persone di ogni tipo, devo ammettere che ero proprio un sognatore. Finita la scuola, decisi di
prendere in mano lo studio di fotografia di mio padre, era da sempre stato il mio sogno, ormai lui
era diventato troppo vecchio per gestirlo e poi a causa della malattia non riusciva più nemmeno a
tenere in mano una macchina fotografica.
Il lavoro non fu affatto facile all’inizio, la Germania era in piena crisi al tempo, ma in un
modo o nell’altro le cose stavano andando bene, non si lavorava troppo ma ci si riusciva a
mantenere. La fotografia mi appassionava di giorno in giorno sempre di più, scattare e rendere
immortali quei momenti di felicità spontanea dei miei clienti mi rendeva contento. Però pian piano
questa felicità, questa normalità iniziò presto a sgretolarsi, i miei genitori ormai erano entrambi
passati a miglior vita, e la situazione politica tedesca non era delle migliori, la gente non sorrideva
più come prima, sentivo che stava per accadere qualcosa di veramente terribile. Le “Leggi di
Norimberga” furono solo l’inizio di quello che ben presto sarebbe stato per noi ebrei. Lo trovavo
assurdo, che cosa stavamo facendo di così tanto grave? Eravamo persone normali come tutti, solo
che il nostro Dio non si chiamava Dio ma Javhè… Ero scettico, pensavo che prima o poi tutto
questo sarebbe finito, qualcuno avrebbe detto di no e subito saremmo tornati alla normalità.
Purtroppo non accadde, i sorrisi finti e tristi che continuavo a catturare, si intensificarono sempre
di più. Anche quando sentii vociferare dei “campi di sterminio”, pensavo fossero tutte storie
inventate solo per farci paura; infatti, quando mi si presentarono alla porta due grandi uomini in
divisa, non dubitai a rispondergli con sincerità riguardo le mie origini ebree e la mia occupazione.
Fui uno sciocco. Appena accennai al fatto di essere ebreo mi strapparono da casa mia, riuscii a
portarmi dietro le uniche cose a cui tenevo di più, una foto dei miei genitori, un paio di vestiti e la
mia macchina fotografica. Mi condussero ad una stazione, c’erano così tante persone, tutte
diverse, solo una cosa le accumunava la loro fredda e triste espressione sul volto. Ci costrinsero a
salire su grandi vagoni merci, si stava così stretti là dentro, non si poteva respirare. Ci restammo
per giorni e giorni, non ci fu data nemmeno un po’ d’acqua o di pane. La gente gridava e piangeva,
alcuni pregavano e basta. In quei momenti mi chiesi se proprio un Dio esistesse e vegliasse su di
noi, e se esisteva perché non faceva qualcosa per evitare l’abominio che stava succedendo, ancora
oggi mi chiedo se veramente esista. Arrivammo a tarda notte, faceva molto freddo, e come dopo venni a sapere, ci trovavamo in Polonia, vicino a Lublino, nel campo di sterminio denominato
Majdanek. Appena sceso, venni assalito dal forte odore di acre nell’aria, fummo ben presto divisi
da donne e bambini, ci derubarono delle nostre valigie, di tutto ciò che possedevamo, ci fecero
spogliare e fummo guardati sommariamente da alcuni ufficiali, per capire chi era effettivamente in
grado di “lavorare”. Ci rasarono i capelli, ci fecero disinfettare e lavare con acqua gelida,
successivamente ci ordinarono di indossare delle tute a righe, così unte e leggere, ci diedero anche
delle scarpe. Ci stavano spogliando della nostra stessa umanità, identità, ci avevano resi tutti
uguali, ci avevano tolto tutto ciò che poteva definirci. Ormai chi eravamo? Ci derubarono perfino
del nostro nome, diventammo un numero per loro, tatuato sul nostro braccio; io ero il
treseisetteotto. Il lavoro era estenuante e le temperature erano sempre più basse, poi ci davano
solo della zuppa, strapiena di acqua, raramente venivano aggiunte verdure e più raramente pezzi
di carne esiccata. Il pane era duro come un masso. Ero sempre più magro, non riuscivo più a
riconoscermi. Dormivamo in baracche con un pezzo di stoffa per coprirci dal freddo durante la
notte. La gente continuava a morire, di fame, fucilati, di affaticamento. Alcuni perfino si
suicidavano, e non posso negare il fatto che anche io una volta non abbia pensato di fare lo stesso.
Morire sembrava il modo migliore per porre fine alle nostre sofferenze, al calvario che stavamo
vivendo. La fuga era praticamente impossibile, il campo era circondato da filo spinato all’interno
del quale correva l’elettricità con alto voltaggio, alcune sentinelle armate controllavano
costantemente il perimetro del lager. Ma un giorno il fotografo del campo si ammalò, e dopo
pochi giorni morì, fu in quel momento che capii che io dovevo vivere, non solo per me stesso ma
per tutti, per portare alla luce cosa stava avvenendo in questi “campi di lavoro”.
Mi misero subito al lavoro, ogni giorno ero costretto a fotografare le tre “viste”
d’ordinanza: fronte, profilo e trequarti di ogni prigioniero. Quei volti così tristi ed emaciati, a volte
perfino derisi dai Kapo che si divertivano a farli cadere per poi umiliarli tra risate e isteria. Ma un
giorno arrivò lei, quella che riaccese la mia speranza nel genere umano. Era alta, castana e con gli
occhi verdi. Qualcosa mi colpì. C’era qualcosa di diverso nei suoi occhi, nella sua espressione,
sorrideva, senza che nessuno glielo chiedesse. Perché sorride, mi chiedevo, se non c’era niente che
facesse gioire o producesse felicità in un ambiente così drammatico e ripugnante. Dopo che finii di
fotografarla mi ringraziò e con un andamento così fiero, andò via. Ne rimasi stupefatto. Dopo
averla fotografata, mi capitò di rivederla, e nonostante fossimo separati dal filo spinato, notai che
era sempre piena di lividi, però continuava a sorridere incessantemente. Durante la notte mi
ritrovavo spesso a pensarla, e a chiedermi perché mai sorridesse quando tutto intorno a noi
parlava di morte e distruzione. «Scelgo la speranza» fu quello che mi disse quando le chiesi il
motivo di quel sorriso tanto abbagliante, che avrei voluto tanto catturare con la mia macchina
fotografica. Iniziammo a cercarci durante i momenti che ci erano concessi; nonostante lei parlasse
poco tedesco e io poco polacco, riuscimmo a comprenderci. Era molto curiosa del mio lavoro,
diceva che quando saremmo usciti le avrei dovuto insegnare a fare le foto e lei mi raccontava dei
suoi sogni di diventare una scrittrice. Nonostante la situazione disperata, esisteva una complicità
tra di noi. Un giorno la vidi ricoperta di lividi più del solito, con il viso ferito, e nella schiena,
attraverso la camicia, si vedeva molto sangue; capii subito di cosa si trattava ma non le feci
domande. Lei continuava a sorridere. Quella fu l’ultima volta che la vidi, compresi che le voci che si stavano spargendo nel campo erano vere. Si vociferava di un’ufficiale donna, Hermine
Braunsteiner, che era particolarmente feroce e cattiva con le prigioniere e i bambini. Adesso so
che usava perpetrare le violenze più inaudite sui prigionieri, e lei sfortunatamente ne fu una
vittima.
Poco dopo i sovietici vennero a liberare il campo, i nazisti cercarono di nascondere le prove,
senza riuscirci; le foto che avevo scattato rendevano giustizia ai morti, il mondo poteva finalmente
vedere cosa stava accadendo. Tutto però non ritornò alla normalità, come speravo, dopo ciò che
avevo visto non osavo più prendere in mano una macchina fotografica, mi faceva troppo male.
Continuavo a ripensare a come avrei potuto salvare delle vite, e soprattutto da sua. Non riuscivo a
darmi pace. Perché io ero vivo e libero, mentre gli altri erano morti? Quando la mia mente era
attraversata da questi pensieri, il suo sorriso e le sue parole risuonavano ridondanti.
Così ho vissuto trenta anni, senza mai riprendere in mano una macchina fotografica. Ho ricostruito,
anche se lentamente, la mia vita a Berlino, mi sono sposato e ho avuto dei figli, anche se non
posso dire di aver completamente smesso di pensare a me stesso come ad un sopravvissuto.
Ero in macchina quando alla radio sentii la notizia che Hermine Braunsteiner sarebbe stata
processata per i crimini abominevoli che aveva commesso, dicevano che il processo si sarebbe
svolto a Dusseldorf. Dentro di me provavo dei sentimenti contrastanti, ma alla fine decisi di non
andare, non volevo ricordare quei momenti che avevo voluto dimenticare. Però non mi davo pace,
e di tanto in tanto cercavo informazioni su quello che le stava accadendo. Così passarono sei anni.
Era il millenovecentottantuno, ero lì nel tribunale di Dusseldorf, davanti a questa donna che aveva
ucciso, frustato, preso a calci uomini, donne e bambini di ogni età. Non provavo niente, ormai ero
pronto a lasciarmi il passato alle spalle. Quasi senza accorgermene, avevo portato con me una
macchina fotografica, e nell’istante in cui il giudice emise la sua sentenza, scattai la mia ultima foto.
Hermine Braunsteiner aveva provato incessantemente a sfuggire alle autorità, giustificandosi e
scappando, ma adesso l’ergastolo che le era inflitto ridava giustizia e dignità a tutte le sue vittime,
anche a quella ragazza che avevo conosciuto nel lager. Dopo aver scattato la foto, mi sembrò di
averla vista sorridente nella folla.
«Scelgo la speranza». Queste parole avevano assunto per me un significato diverso. Mi avevano
derubato dei miei sogni e dei miei progetti di vita, ma la mia foto era ormai uno strumento di
memoria. Non lasciate che riaccada mai più